Alimentazione romana

dall'età monarchica alla repubblica

 

 

Che cosa era Roma, nei suoi primi anni di vita, se non un borgo di agricoltori austeri e timorati degli dèi?

E' nota la distinzione che certa storiografia ha imposto tra i re agrari e i re commercianti; i primi probabilmente di origine sabina, i secondi di ceppo etrusco.

La Roma di Romolo e Remo (VIII sec. a.C.) e delle cento famiglie che si erano prodigate per innalzarla agli altari di una fama ancora lungi dall'essere consolidata, associò ben presto ai suoi interessi eminentemente agricoli quelli squisitamente commerciali.

Niente di più comprensibile, vista la necessità di fare assorbire dal mercato la produzione agricola in eccedenza. Da un'economia prevalentemente domestica si passava dunque ad un sistema aperto agli scambi commerciali con i popoli limitrofi, senza per questo compromettere le tradizionali abitudini frugali di un popolo dai gusti sobri.

Gli etruschi emigrati nella città capitolina, insieme ad altre popolazioni italiche, non sembra avessero nel minimo modo scalfito o corrotto gli usi alimentari dei romani, limitandosi invece a trasmettere le loro conoscenze in materia tecnica ed idraulica.

La dieta base dei romani nel periodo monarchico e nei primi anni della Repubblica (V sec. a.C.) si incentrava su poche pietanze, come legumi, verdura, e focacce di farro o di orzo. Il pane di farina e la carne erano poco usati, e di vino non era presente. Il romano lavorava tutto il giorno nei campi o faceva la guerra e non aveva tempo per sviluppare una raffinata cucina, della quale del resto non possedeva alcun modello da imitare. La Grecia era lontana, ed il richiamo rappresentato dal classicismo non aveva ancora sortito i suoi effetti ammaliatori su un popolo misurato e parco come quello romano.

L'aria di austerità che ancora si respirava nella città capitolina al momento dell'instaurazione della Repubblica (509 a.C.) era in parte determinata dalla volontà di mantenere la cosiddetta “pax deorum”, che qualsiasi comportamento dissoluto avrebbe irrimediabilmente compromesso.

La base dell'alimentazione degli inizi di questa civiltà era rappresentato dalla "polta" o puls, semplice farina di farro cotta in acqua salata, paragonabile come consistenza alla polenta.

La polta era un alimento popolare molto povero. Per questo, per migliorarne il gusto, si aggiungeva un po' di tutto: fave, lenticchie, cavoli, cipolle.

Ai primi posti nei consumi dell'epoca troviamo aglio, cipolla, carote, funghi, rape e cavoli.

Anche asparagi e porri, proprio perché abbondanti allo stato selvatico, erano in cima alle preferenze del popolo. Nella classifica degli alimenti più mangiati non poteva di certo mancare il cavolo, consumato, come suggerisce Catone, persino crudo.

I romani, però, non erano soltanto grandi "mangiatori di erbe", come affermava Plauto. Nei loro pollai allevavano le galline per produrre le uova necessarie a integrare una dieta altrimenti povera di proteine. Erano le donne ad occuparsi dell'allevamento di animali da cortile ma questi, più che per essere mangiati, servivano per la produzione delle uova. Dalla loro forma cercavano di stabilire il sesso del nascituro: quelle di forma allungata erano ritenute futuri maschi, quelle più tonde avrebbero fatto nascere pulcini di sesso femminile.

Se la carne era ancora un lusso destinato a pochi, il latte era sicuramente uno degli alimenti più importanti nella dieta di base: bevuto fresco, cagliato, o trasformato in formaggi. Era consumato soprattutto il latte di pecora e di capra. Quello di mucca era poco conosciuto nell'Italia centrale e meridionale.

I romani d’epoca repubblicana traevano sostegno alimentare dalla coltivazione di un piccolo appezzamento di terreno: l'orto.

Durante la stagione invernale, nelle case dei romani, si attingeva a provviste messe insieme con radici, carne di maiale salata e affumicata, lardo, formaggi e miele. Gli alimenti venivano conservati in salamoia, nel miele o in aceto: il sale aveva un'enorme importanza e il primo lusso che ogni famiglia si concedeva era proprio una saliera d'argento.

Il secolo cruciale che segna la svolta nelle abitudini alimentari romane è il II a.C.. Roma in precedenza si era impadronita dell'Italia e ne aveva monopolizzato le reti commerciali e quelle di transito. Con la vittoria nelle guerre puniche l'avversario storico di Roma, Cartagine, viene a cadere lasciando il bacino del Mediterraneo e tutti i territori annessi, alla sua mercè.

Il dominio incontrastato di Roma sulla principale rotta commerciale del mondo fino ad allora conosciuto, è la prova più chiara del suo assurgere al rango di prima potenza del globo terrestre. L'affluire di immense quantità di prodotti sui mercati romani, provenienti dalle zone conquistate, creò le premesse per un cambiamento epocale in termini di preferenze alimentari.

Ad affinare i gusti dei romani provvidero le migliaia di greci che in qualità di cuochi o di fornai si misero al servi delle famiglie più in vista della città. I greci portarono a Roma il pane, o meglio tutte le varietà di pane che erano in grado di impastare con dovizia artistica.

Prima di quell'epoca i romani non conoscevano il lievito, elaborando forme alquanto rudimentali di pane al quale preferivano le pittoresche pappe di cereali. L'esimio rappresentante del senato romano, Catone, si lamentava che i suoi concittadini avevano abbandonato in massa la dieta a base di pappa di farro per adottare il gusto greco del pane. In ciò egli vedeva un allontanamento dal "costume degli antenati".

Fu nel 171 a.C. che a Roma, con l'istituzione del primo forno commerciale, s'inizio ad attribuire valenza simbolica a questo alimento.